Author: Anders Ge.
Nati nel cuore degli anni Sessanta a Toronto, i Rush hanno trasformato il rock progressivo con la loro straordinaria miscela di tecnica strumentale, liriche filosofiche e spirito indipendente. Dalla potenza hard rock di “Rush” all’audacia elettronica di “Signals”, fino all’epilogo visionario di “Clockwork Angels”, il trio ha ridefinito gli orizzonti sonori di un’intera generazione. Nel ripercorrere la loro evoluzione, si scopre non solo una carriera, ma un percorso di innovazione artistica e integrità senza compromessi.
Continua dalla Prima Parte
Dopo il successo dirompente di 2112, che ha rappresentato una sfida alle regole dell’industria discografica di genere e un’affermazione artistica senza compromessi, i RUSH entrano nella fase più visionaria della loro carriera. Tra il 1977 e il 1981, il trio canadese si lancia in una ricerca sonora e concettuale che li avrebbe consacrati come una delle formazioni più importanti e originali della scena progressive internazionale. Gli album A Farewell to Kings (29 agosto 1977) e Hemispheres (24 ottobre 1978), registrati presso i Rockfield Studios in Galles, segnano l’inizio di una nuova epoca con l’abbandono graduale delle radici hard rock in favore di una complessità compositiva sempre più ardita. I brani si allungano, si strutturano in più movimenti e abbracciano temi che spaziano dalla mitologia classica alla speculazione cosmica. Xanadu, ad esempio, è un brano con atmosfere quasi lisergiche, che
evoca paesaggi mentali vicini a quelli esplorati dagli Yes e rappresenta uno dei momenti più alti del loro lirismo musicale. Sul piano strumentale, ciascun membro del gruppo espande notevolmente la propria tavolozza espressiva. Alex Lifeson arricchisce il proprio playing con l’uso di chitarre acustiche a sei e dodici corde, mentre Geddy Lee introduce sempre più frequentemente l’uso di tastiere analogiche come il Minimoog e impiega con grande maestria i pedali bassi Taurus, creando un tappeto sonoro solido e avvolgente. Neil Peart, invece, si trasforma in un vero e proprio percussionista orchestrale, affiancando al suo set tradizionale strumenti come triangoli, glockenspiel, wood blocks, cencerros, timbales, gong e campane tubolari (a quanto pare immancabili in quegli anni), rendendo la sua batteria una sorta di piccolo ensemble sinfonico. Allo stesso modo, i suoi testi si fanno ancora più ricchi e
stratificati, spesso influenzati dalla letteratura classica e dalla filosofia libertaria, in particolare da autori come la già citata Ayn Rand. Le sue liriche alternano riferimenti alla fantascienza, come in Cygnus X-1, a riflessioni sull’autorità e la condizione umana, come in The Trees o Closer to the Heart.
Con Permanent Waves (14 gennaio 1980), il gruppo vira verso un suono più immediato, senza però abbandonare la raffinatezza stilistica. L’album rappresenta un equilibrio tra l’eredità progressiva e le nuove influenze della new wave e del reggae. Brani come The Spirit of Radio e Freewill, pur mantenendo una struttura più accessibile, sono costruiti con grande dinamismo ritmico e armonico. Il successo è immediato e, per la prima volta, un album dei RUSH entra nella top 5 statunitense di Billboard 200. La durata più contenuta dei brani — raramente oltre i sei minuti –
favorisce una maggiore diffusione radiofonica, contribuendo così ad ampliare la fanbase del gruppo.
Le tematiche affrontate nei testi continuano a evolvere. Peart si concentra sempre più sulla riflessione intellettuale, sull’individualismo, sulla libertà di pensiero (Freewill) e sul potere rigenerante della conoscenza scientifica (Natural Science). È un rock colto e impegnato, che sfida lo stereotipo del musicista (specialmente rock) disimpegnato e festaiolo.
I RUSH nel 1978 - da sinistra: Alex Lifeson, Neil Peart e Geddy Lee
In questo periodo, i RUSH collaborano anche con altri artisti canadesi. Con il gruppo progressive Max Webster partecipano alla registrazione del brano Battle Scar (Universal Juveniles, 1980), ricevendo in cambio da Pye Dubois — paroliere della band — il testo che diventerà la base per uno dei loro brani più iconici: Tom Sawyer.
Moving Pictures: l’apice del successo (1981)
Il 1981 rappresenta il culmine artistico e commerciale per i RUSH. Con l’uscita di Moving Pictures (12 febbraio 1981), il trio riesce a condensare anni di evoluzione musicale in un’opera che unisce accessibilità e profondità. Il disco presenta una serie di brani che diventeranno vere e proprie pietre miliari del rock.
Tom Sawyer è il singolo più
celebre del gruppo, un concentrato di tensione lirica e precisione strumentale che diventa immediatamente una hit internazionale. Red Barchetta narra, con un tono quasi cinematografico, la storia di una fuga in auto in un futuro distopico, mentre YYZ, brano strumentale costruito su una sequenza ritmica derivata dal codice Morse dell’aeroporto di Toronto (YYZ è il codice aeroportuale IATA - International Air Transport Association — dell’Aeroporto Internazionale di Toronto-Pearson della città canadese), è un manifesto della loro abilità tecnica. Limelight riflette sul rapporto tra celebrità e isolamento, un tema caro a Peart, notoriamente schivo e riservato. Ma è con The Camera Eye — l’ultima composizione dei RUSH a superare i dieci minuti — che il gruppo chiude simbolicamente l’era progressive. Il brano descrive il paesaggio urbano di New York e Londra attraverso un prisma sonoro dominato da tastiere, evocando una
realtà stratificata, moderna e alienante. Moving Pictures raggiunge la terza posizione della classifica americana Billboard 200 e viene certificato quadruplo disco di platino dalla RIAA.
La tournée mondiale che segue è un trionfo e viene immortalata nel secondo album dal vivo del gruppo, Exit… Stage Left (29 ottobre 1981), che raccoglie il meglio del repertorio progressive e testimonia, ancora una volta, le capacità esecutive ed evolutive del trio. Come per il precedente live, All the World’s a Stage, con Exit…Stage Left i RUSH chiudono un capitolo fondamentale della loro carriera. I dischi successivi, a partire da Signals (1982), inaugureranno una nuova fase, quella dell’elettronica, dei sintetizzatori e di un suono sempre più moderno e sofisticato. Ma il quadriennio 1977–1981 rimane, per molti fan e critici, l’essenza stessa del genio creativo dei RUSH.
Un punto di svolta: Signals
Con l’inizio degli anni Ottanta, i RUSH intraprendono un’evoluzione sonora radicale, forse la più coraggiosa e controversa della loro lunga carriera. Dopo un decennio, segnato da un progressivo ampliamento delle strutture musicali, culminato con opere ambiziose come Hemispheres (1978) e Permanent Waves (1980), la band canadese decide di rimettersi in discussione. Se negli album precedenti i sintetizzatori erano apparsi come semplici elementi decorativi, destinati ad arricchire l’impianto sonoro, con Signals (9 settembre 1982) diventano la spina dorsale del linguaggio musicale del trio. Questo nuovo corso non rappresenta soltanto un cambiamento strumentale, ma una vera e propria rifondazione estetica. I suoni si fanno più stratificati, le atmosfere si tingono di una malinconia tecnologica, e la forza propulsiva del rock viene filtrata attraverso trame elettroniche sempre più complesse. È una
fase di transizione in cui i RUSH, pur conservando la loro identità, cominciano a parlare una lingua nuova, più vicina alla sensibilità post-punk e new wave dell’epoca che al rock dei loro inizi. L’apertura di Signals, affidata al celebre brano Subdivisions, è una dichiarazione d’intenti senza compromessi. Il pezzo si apre con arpeggi sintetici avvolgenti, che sembrano evocare il battito pulsante di una metropoli ipertecnologica, mentre la voce di Geddy Lee scandisce versi che descrivono l’alienazione e l’omologazione dei sobborghi urbani. Il testo, firmato da Neil Peart, tocca con precisione chirurgica il senso di smarrimento adolescenziale, la pressione conformista, il desiderio di evasione. Non a caso, Subdivisions è diventato nel tempo uno dei brani più iconici del gruppo, amato anche da chi si avvicina alla loro musica proprio per la sua capacità di raccontare una condizione esistenziale universale.
I RUSH nel 1982 - da sinistra: Alex Lifeson, Geddy Lee e Neil Peart
Un altro momento di grande impatto emotivo è rappresentato da Losing It, brano lento, quasi completamente elettronico, con la partecipazione del violinista Ben Mink, che contribuisce con uno struggente e malinconico, quasi etereo, assolo di violino, in netto contrasto con le radici hard rock della band. La canzone è costruita come un’elegia lenta e sospesa, in cui l’elemento elettronico si intreccia con l’intervento del violinista, la cui performance contribuisce a creare un’atmosfera di dolente introspezione. È una composizione che parla della fragilità del talento, del declino fisico e mentale, del passare inesorabile del tempo. Una riflessione matura, quasi letteraria, che testimonia la crescente profondità lirica di Peart e la capacità del gruppo di affrontare temi universali senza retorica.
Nonostante il ruolo centrale acquisito dai sintetizzatori, la chitarra di Alex Lifeson non viene
relegata al silenzio. Al contrario, il suo stile si adatta con intelligenza al nuovo contesto meno protagonista, ma più funzionale all’insieme. I suoi riff e arpeggi diventano più asciutti, precisi, spesso trattati con effetti per integrarsi armonicamente nelle texture elettroniche costruite da Geddy Lee. I lunghi assoli virtuosistici cedono il passo a interventi più brevi e mirati, capaci di suggerire emozioni con pochi tocchi, rafforzando così la dimensione atmosferica del suono.
Altro brano significativo è New World Man, che rappresenta un momento di equilibrio perfetto tra accessibilità e sperimentazione. Il brano, sorprendentemente, conquista le classifiche pop americane, arrivando fino al vertice della Album Rock Tracks Chart dell’immancabile “bibbia delle classifiche” Bilboard. Ma il successo non è dovuto a un ammorbidimento del linguaggio, bensì alla capacità del trio di condensare in una forma compatta e orecchiabile tutta la loro
inventiva ritmica e melodica. La canzone fonde in modo brillante elementi rock, influssi reggae e una vena melodica contagiosa, dimostrando che la complessità e la fruibilità non sono necessariamente in conflitto.
Signals segna anche l’inizio di un processo di contaminazione musicale sempre più consapevole. Brani come The Analog Kid e Digital Man testimoniano l’influenza crescente di generi come il reggae, lo ska e persino il funk, che vengono integrati nel tessuto ritmico con naturalezza, senza mai apparire come escursioni forzate. Neil Peart, sempre più attento alla varietà timbrica e stilistica della sua batteria, sperimenta nuove figurazioni ritmiche, talvolta filtrate attraverso percussioni elettroniche, mentre Lee esplora registri vocali più espressivi e meno forzati, complice anche una maggiore attenzione alla linea melodica.
L’approccio della band è quello di chi rifiuta la ripetizione sterile, abbracciando il cambiamento come esigenza
espressiva. In questo senso, Signals rappresenta un punto di non ritorno, non solo un’evoluzione tecnica, ma una vera e propria ridefinizione della visione artistica dei RUSH. La scelta di dare sempre più spazio a paesaggi sonori stratificati, alla riflessione lirica e alla costruzione di atmosfere è il segnale di una band che guarda al futuro con lucidità, pronta ad affrontare le sfide di un nuovo decennio.
L’importanza di Signals non è semplicemente quella dell’album che ha introdotto l’elettronica nei RUSH, ma è l’inizio di una stagione in cui la band rilegge la propria identità alla luce del cambiamento, abbracciando influenze nuove senza tradire l’integrità della propria visione. È un disco che, pur segnando un allontanamento dai canoni dell’hard rock e del progressive rock tradizionale, ne conserva l’ambizione, la cura strutturale e il desiderio inesausto di esplorare territori inesplorati. Un’opera coraggiosa, visionaria, e ancora oggi di sorprendente
attualità.
Grace Under Pressure: tensione e mutamento
Il passo successivo arriva con Grace Under Pressure (12 aprile 1984), un disco segnato da un clima teso e oscuro, riflesso del contesto geopolitico dell’epoca e delle difficoltà interne alla band. Per la prima volta dal 1974, i RUSH si separarono dal loro storico produttore Terry Brown, cercando inizialmente di collaborare con Steve Lillywhite (già al lavoro con U2 e Simple Minds), che però abbandona il progetto all’ultimo momento. Il gruppo opta così per una coproduzione con Peter Henderson (Frank Zappa Wings, Paul McCartney, Supertramp), e si trova a esplorare un territorio musicale che miscela elettronica, rock e pulsioni più introspettive.
Il titolo dell’album è emblematico e suggerisce la situazione di vulnerabilità creativa in cui si trovano i tre musicisti. Peart amplia ulteriormente
il proprio set con batterie elettroniche Simmons, mentre Lifeson torna a un ruolo più centrale, contribuendo con riff graffianti e atmosfere più aggressive. Distant Early Warning, il brano di apertura, è tra i più rappresentativi: una canzone densa, drammatica, attraversata da echi post-apocalittici e da un riff di chitarra pulsante che convive con sequenze sintetiche. Altri brani, come Red Sector A, affrontano temi legati all’Olocausto e alla disumanizzazione, mentre Between the Wheels analizza le pressioni del progresso con toni cupi e fatalistici.
Power Windows: l’eleganza del controllo
Nel 1985, i RUSH pubblicano Power Windows (11 ottobre 1985), forse il loro lavoro più levigato e sofisticato sotto il profilo della produzione, realizzata con il produttore Peter Collins (Gary Moore, October Project, Bob Jovi, Alice Cooper). L’album rappresenta una piena immersione nell’estetica elettronica degli anni Ottanta, con un uso massiccio di tastiere, sequencer e suoni programmati. La chitarra di Lifeson diventava uno degli elementi orchestrali più che uno strumento solista. L’intero disco è costruito con una precisione quasi architettonica, caratterizzato da arrangiamenti elaborati e armonie dense.
Le tematiche liriche, scritte come sempre da Neil Peart, ruotavano attorno al potere, ai mass media, al controllo sociale. Con The Big Money e Manhattan Project, il gruppo affronta temi economici e storici,
mettendo in discussione le logiche di dominio e la corsa agli armamenti. Marathon e Territories, invece, mostrano una band capace di costruire strutture musicali articolate ma sempre fluide, con liriche che celebrano la resilienza dell’individuo o criticano il tribalismo globale.
Nonostante la qualità impeccabile delle tracce, Power Windows non produce un vero e proprio hit radiofonico, e il suo successo è più moderato rispetto ai lavori precedenti. Tuttavia, la coerenza tematica e l’ambizione sonora ne fanno uno degli album più sottovalutati dal grande pubblico, ma tra i più amati dai fan della band.
I RUSH nel 1988 - da sinistra: Alex Lifeson, Neil Peart e Geddy Lee
Hold Your Fire: equilibrio ed elementi
Con Hold Your Fire (8 settembre 1987), sempre con la produzione di Peter Collins, i RUSH cercano un punto d’equilibrio tra l’introspezione di Grace Under Pressure e la raffinatezza produttiva di Power Windows. Il risultato è un album concettualmente incentrato sulla ricerca dell’armonia tra gli elementi naturali — fuoco, acqua, aria e terra — come metafora delle emozioni umane. Musicalmente, si tratta di un disco più morbido e contemplativo, non privo di spunti brillanti.
Force Ten e Time Stand Still — che vede anche la partecipazione vocale di Aimee Mann (già cantante e bassista del gruppo new wave ’Til Tuesday) — evidenziano una scrittura matura, attenta ai dettagli, capace di unire lirismo e precisione. Il
sound è meno sperimentale rispetto agli album precedenti, ma più caldo, grazie anche a un uso più calibrato dei sintetizzatori e a un ritorno della chitarra a un ruolo più espressivo. Alex Lifeson, in particolare, comincia a utilizzare nuovi processori di effetti che conferirono al suo suono una pulizia e una profondità inedite, quanto affascinanti e avvolgenti.
Criticamente, Hold Your Fire è accolto in modo più positivo rispetto al disco precedente, e molti (compreso chi scrive) lo considerano oggi il vertice dell’era elettronica della band. Anche in termini di liriche, l’album si distingue per una tensione poetica che affronta temi esistenziali, relazionali e spirituali con grande sensibilità.
Il manifesto live: A Show of Hands
Ancora una volta, il periodo si chiude con la pubblicazione di un disco dal vivo dopo quattro in studio: A Show of Hands (9 gennaio 1989), una raccolta di brani eseguiti durante le tournée di Power Windows e Hold Your Fire, registrati tra il 1986 e il 1988. L’album cattura perfettamente l’energia e la precisione esecutiva del trio in questa fase della loro carriera, documentando la loro evoluzione in chiave elettronica anche sul palco. Il disco raggiunge la 21ª posizione nella classifica Billboard 200 e viene certificato disco d’oro. Tuttavia, non mancano le controversie. Alcuni critici — tra cui Michael Azerrad di Rolling Stone — accusano la band di essersi trasformata in una “macchina da esibizione”, eccessivamente perfetta e troppo calcolata. L’accusa è quella di un intellettualismo ostentato, che rende difficile un coinvolgimento emotivo immediato. Ma per i
fan, A Show of Hands è la conferma definitiva: i RUSH non sono solo una band, ma una vera e propria trinità musicale.
Questo live segna anche la conclusione della collaborazione della band con la Mercury Records, con cui hanno pubblicato tutta la loro discografia fino a quel momento. Poco dopo, nel 1990, l’etichetta pubblica Chronicles (4 settembre 1990), una raccolta retrospettiva in 2 LP/CD che offre una panoramica esaustiva del cammino artistico dei RUSH fino alla fine degli anni Ottanta (compresa Show Don’t Tell, dall’album Presto, il primo inciso per l’Atlantic Records), affiancata dalla versione in VHS o LaserDisc Chronicles: The Video Collection (23 ottobre 1990), rieditata in DVD nel 2001 con il titolo di Rush Chronicles — The DVD Collection (25 settembre 2001).
CONTINUA…
Gli album della seconda parte:
A Farewell To Kings (1977)
Hemispheres (1978)
Permanent Waves (1980)
Moving Pictures (1981)
Exit… Stage Left (1981)
Signals (1982)
Grace Under Pressure (1984)
Power Windows (1985)
Hold Your Fire (1987)
A Show of Hands (1989)
Chronicles (1990)