Author: Anders Ge.
Dal cuore di un villaggio sperduto tra i menhir alle librerie di tutto il mondo, da più di sessant’anni Astérix racconta la forza di chi resiste senza mai chiudersi. Tra satire, scazzottate e banchetti, la saga di Astérix continua a insegnare come l’identità locale può diventare un messaggio universale di apertura e dialogo.
Sessant’anni dopo la sua nascita editoriale, Astérix (in realtà, in italiano, la e perde l’accento acuto, ma continuerò lo stesso ad utilizzarla accentata) non è soltanto un personaggio di carta e matita, ma un simbolo duraturo di resistenza e di umorismo universale. Il piccolo guerriero gallico, armato di elmo alato e di una buona dose di spirito beffardo, non combatte più soltanto contro le legioni di Cesare ma è diventato un baluardo contro l’omologazione culturale, che rischia di appiattire le identità locali in un mondo sempre più interconnesso.
Dal primissimo albo Astérix il gallico (Astérix le Gaulois, a puntate su Pilote da ottobre 1959 a luglio 1960 e in volume nel 1961) fino all’ultimo - ad ora - capitolo, Astérix in Lusitania (Astérix en Lusitanie, 2025), la saga creata da René
Goscinny (testi) e Albert Uderzo (disegni) ha attraversato decenni e confini geografici, reinventandosi senza mai rinunciare alla sua essenza. Con traduzioni in oltre cento lingue e dialetti, Astérix, oltre a solo una delle bande dessinée più venduta di sempre, è la prova vivente che una buona storia, radicata in un contesto preciso ma capace di farsi universale, può parlare a generazioni diversissime tra loro.
Dai banchi di scuola francesi fino agli scaffali delle librerie di mezzo mondo, Astérix è rimasto fedele a se stesso: ironico, scanzonato, dissacrante. Una parabola di identità, differenza e dialogo interculturale che ancora oggi riesce a strappare un sorriso, ma anche a far riflettere su come la cultura popolare possa diventare uno spazio di resistenza e di incontro tra diversità.
«Nel 50 avanti Cristo tutta la Gallia è occupata dai Romani… Tutta? No! Un villaggio dell’Armorica, abitato da irriducibili Galli resiste ancora e sempre all’invasore. E la vita non è facile per le guarnigioni legionarie romane negli accampamenti fortificati di Babaorum, Aquarium, Laudanum e Petibonum…»
Ecco dove si trova il villaggio gallico…
Quando nel 1961 la rivista Pilote pubblicò per la prima volta le strisce di Astérix le Gaulois, forse neppure i suoi creatori, potevano immaginare la portata di ciò che stavano mettendo in moto. In quel pugno di pagine a fumetti, ambientate in un villaggio minuscolo perso tra foreste e menhir1 , prendeva vita una piccola comunità di capi burberi, bardi stonati, fabbri e pescivendoli litigiosi e guerrieri con l’elmo alato, un microcosmo che avrebbe saputo parlare non solo alla Francia, ma a milioni di lettori in tutto il mondo.
Da allora, più di 400 milioni di copie vendute, traduzioni in oltre 110 lingue e dialetti, adattamenti cinematografici, cartoni animati e una serie infinita di gadget e merchandising hanno reso Astérix un fenomeno culturale senza precedenti nella storia della bande dessinée francese. Un
successo che non si spiega solo con le gag o le buffe scazzottate con i Romani: il segreto è un equilibrio quasi perfetto tra leggerezza e intelligenza, tradizione popolare e ironia colta.
Astérix non è mai stato soltanto un fumetto nostalgico sull’orgoglio celtico, è piuttosto un inno alla convivialità, una celebrazione di quell’irriducibilità che non diventa mai chiusura. Il villaggio gallico è una piccola utopia di autonomia e ospitalità, pronto a difendersi da Cesare ma anche ad accogliere forestieri (a patto che non vengano a imporre leggi straniere).
La sua forza, ancora oggi, è la capacità di sbeffeggiare i poteri imperiali di ogni epoca, trasformando ogni popolo incontrato in un affresco di tic culturali esagerati. Dalle allusioni storiche alle battute scolastiche che strizzano l’occhio a un pubblico colto, l’umorismo di Astérix resta uno dei meccanismi più raffinati
della satira disegnata. Fa ridere di tutti — che siano romani, galli, britanni o germani, iberici o di qualunque altra nazionalotà — ma, contemporaneamente, invita anche a ridere di se stessi. Ed è forse proprio questo che rende quel villaggio sperduto, stretto intorno al pentolone della pozione magica di Panoramix, che dona una forza irresistibile, ancora così resistente e universale. Una comunità minuscola capace di farsi specchio dell’Europa intera.
Albert Uderzo (Astérix) René Goscinny
Astérix non è soltanto una serie a fumetti ambientata in un angolo remoto della Gallia antica, a suo modo è una mappa dell’anima europea, disegnata con ironia e consapevolezza storica. Quando nacque nei primi anni Sessanta, l’Europa stava ancora raccogliendo i cocci della Seconda Guerra Mondiale e cercava di ridefinire il proprio racconto collettivo, in bilico tra spinte unificatrici e desiderio di mantenere vive le identità locali. In questo contesto, la piccola Armorica di Astérix si è trasformata in una metafora perfetta di una resistenza diffusa e colorata. Un villaggio dove la differenza non è un ostacolo, ma una ricchezza. Che si tratti di Britanni imperturbabili, di Goti bellicosi o di pirati sgangherati, ogni persona è accolta con una dose di parodia e uno spirito di curiosità reciproca (beh, magari i pirati avrebbero
qualcosa da ridire, a tal proposito…). È la satira come forma di riconoscimento. Riderne significa accettare di far parte di una stessa comunità culturale, seppur frammentata.
A partire dagli anni Settanta, questa idea di Europa policentrica ha trovato una traduzione concreta grazie a movimenti culturali e associazioni locali che si sono battuti per far parlare Astérix nelle lingue dei propri territori. Dal bretone all’occitano, dal romancio svizzero al bavarese, il fumetto è diventato un piccolo manifesto di identità regionale, uno strumento per dire “noi esistiamo” di fronte a centri politici percepiti come troppo uniformanti (Parigi, Bruxelles, Roma…).
In Germania, questo fenomeno ha raggiunto dimensioni impressionanti: dalle edizioni in svevo2 a quelle in bavarese3, fino ai dialetti urbani di Amburgo, le traduzioni di Astérix hanno finito per creare una collezione parallela di resistenze linguistiche. Ogni nuova versione non è solo un atto editoriale, ma un gesto simbolico di rivendicazione culturale, un modo per ribadire che anche i più piccoli villaggi, reali o immaginari, hanno diritto di parola in un’Europa che troppo spesso tende a livellare le differenze.
Così, pagina dopo pagina, battuta dopo battuta, il villaggio di Astérix è diventato un atlante vivente delle identità europee: un territorio in cui la diversità linguistica e culturale non è temuta ma celebrata, protetta dall’ironia e resa immortale da una risata collettiva che, da sessant’anni, non si è mai interrotta.
Nonostante la sua straordinaria popolarità in Europa e in molti altri angoli del pianeta, Astérix ha incontrato, nel corso della sua lunga marcia, anche confini culturali che si sono rivelati difficili da varcare. È la prova che nemmeno la pozione magica dell’ironia universale può bastare a scardinare tutte le barriere editoriali e simboliche.
Negli Stati Uniti, ad esempio, il piccolo gallo con l’elmo alato non è mai riuscito a spodestare i supereroi in calzamaglia che da decenni dominano l’immaginario a stelle e strisce. Il formato stesso dell’albo cartonato europeo, con le sue quarantotto pagine rilegate e illustrate a colori su carta pregiata, non si sposa bene con la cultura popolare americana, abituata ai comic book spillati, economici e pensati per essere letti in pochi minuti tra una fermata di metro e l’altra. Ma non è solo una questione di formato: lo humour di Astérix, radicato
nella parodia storica, nei giochi di parole e in un gusto sottile per l’autoironia, mal si adatta a un pubblico che predilige il registro epico, l’azione diretta e la linearità narrativa.
Anche il contesto culturale gioca la sua parte. L’idea di un villaggio minuscolo che resiste a un impero smisurato risuona potentemente in una certa tradizione europea postbellica, ma risulta forse meno immediata in una cultura, come quella statunitense, spesso orgogliosa della propria visione espansionistica e della retorica del progresso. Non stupisce, dunque, che Astérix sia stato percepito da molti come un fumetto “da intellettuali”, destinato a nicchie di lettori colti.
Lo stesso limite si ritrova, seppure con sfumature diverse, in Giappone. Qui la tradizione del manga — con i suoi codici, la sua grammatica visiva e il suo senso dell’umorismo — ha radici troppo profonde per accogliere senza resistenze un fumetto europeo così
intriso di riferimenti scolastici, battute latineggianti e citazioni parodistiche. Nel Paese del Sol Levante, Astérix resta un oggetto curioso, magari apprezzato da una ristretta cerchia di lettori cosmopoliti, ma lontano dall’essere un fenomeno di massa.
Eppure, questi insuccessi relativi non sono un segnale di debolezza. Al contrario, raccontano di quanto il personaggio sia radicato in una matrice culturale specifica, capace di parlare con autenticità a chi condivide quel bagaglio di storia, ironia e senso critico. Forse è proprio questa fedeltà alle proprie radici a rendere Astérix così vivo ancora oggi. Un eroe che non scende a compromessi, che preferisce restare nel suo villaggio, pronto a difendere la sua pozione magica di satira e parodia, anche quando le legioni dell’omologazione globale bussano alle palizzate.
Gli abitanti del villaggio gallico … e qualche legionario romano
A rendere Astérix davvero internazionale non è una generica neutralità da cartolina, ma proprio la sua identità marcata e riconoscibile, scolpita in un contesto storico ben preciso. Dietro la sua pozione magica di gag e scazzottate si nasconde un DNA profondamente europeo, un patrimonio di valori ereditato da un’epoca (quella dei primi anni Sessanta) in cui l’Europa cercava di ricucire le proprie ferite e di riaffermare ideali come la democrazia, il pluralismo culturale, la curiosità verso l’altro e, non da ultimo, l’ironia come arma gentile contro ogni autoritarismo. Astérix, in fondo, non è solo un fumetto di avventura ma anche una parabola di resistenza culturale. Il suo minuscolo villaggio, stretto attorno al fuoco, alle liti di pescivendoli e fabbri, ai banchetti a base di cinghiale arrosto, incarna tutte quelle comunità locali che difendono la propria identità senza trasformarla in un fortino chiuso. È un luogo aperto
per definizione: dentro la palizzata si combatte e si discute, ma le porte si spalancano quando arriva un viaggiatore o quando c’è da festeggiare. È la celebrazione di un localismo che non diventa mai nazionalismo cieco, ma anzi si nutre di incontro, scambio, contaminazione. Ogni album è, a suo modo, una piccola lezione di geopolitica. Quella mappa iniziale, il famoso “Un villaggio dell’Armorica, abitato da irriducibili Galli…”, non segna solo una zona rurale della Gallia, ma diventa la rappresentazione simbolica di una frontiera che si rinnova di storia in storia. Dall’Egitto di Cleopatra, dove l’architettura faraonica si piega alla satira, ai villaggi goti attraversati da inquietanti allusioni totalitarie, ogni viaggio di Astérix mostra che le civiltà sono sempre in dialogo, anche (e forse specialmente) quando litigano. L’eterna domanda resta la stessa: chi è davvero il barbaro? Chi il civilizzato?
In ogni puntata si ride dei pregiudizi reciproci, si ribaltano i cliché, si smontano le certezze etnocentriche.
Ma il vero miracolo è che, nonostante differenze, equivoci e scazzottate, la storia finisce sempre nello stesso modo: intorno a un banchetto comune. Quell’immagine di tutti seduti a tavola, con un cinghiale arrosto e il bardo Assurancetourix (stonato all’inverosimile) legato all’albero per non rovinare la festa, resta un simbolo di comunione e riconciliazione. È il segno che, alla fine, ciò che unisce (la risata, il cibo, la voglia di stare insieme) è più forte di ciò che divide. E forse è proprio questa la più grande lezione che Astérix regala ancora oggi: si può essere irriducibili senza essere intolleranti; si può difendere un’identità senza chiudersi al resto del mondo.
Alcuni personaggi di Astérix
Tradurre Astérix non è mai stato — e non potrà mai essere — un semplice esercizio di trasposizione parola per parola. È piuttosto un’arte di adattamento, una sfida creativa che obbliga traduttori, editori e studiosi a reinventare continuamente battute, calembour4, nomi parlanti e riferimenti culturali. In ogni nuova lingua, il villaggio gallico cambia sfumature, accenti, battute di spirito. Non perde però la sua anima, ma ne acquista di nuove.
Dietro questo lavoro certosino c’è una convinzione precisa: la lingua non è solo uno strumento di comunicazione, ma un baluardo di identità. Lo dimostrano le decine di edizioni dialettali nate a partire dagli anni Settanta. Dal bretone all’occitano5, dal romancio svizzero6 alle varianti tedesche regionali, finanche il latino, ogni traduzione diventa un piccolo atto di resistenza culturale. Prendere Astérix e fargli parlare la lingua di casa significa dire “noi esistiamo”, significa far rivivere idiomi minacciati dall’omologazione e renderli orgogliosamente parte di un fenomeno globale.
Ogni esempio racconta una storia. In Catalogna, il burbero capo villaggio Abraracourcix diventa Copdegarròtix, un nome che richiama ironicamente la tradizionale danza dei bastoni, simbolo di radici popolari. In Austria_, invece, i Galli di Armorica parlano in dialetto tirolese_ per contrapporsi alla lingua standard di Vienna, giocando sulle tensioni tra centro e periferia.
E così, album dopo album, Astérix diventa una vera
Babele di rimandi, strizzatine d’occhio, doppi sensi reinventati. L’effetto non è mai casuale e ogni adattamento punta a creare un legame di familiarità con i lettori locali, a far scattare la risata proprio lì dove la battuta originale, tradotta alla lettera, sarebbe rimasta muta. In questo sta la magia di un fumetto che non teme di essere intraducibile ma, al contrario, fa della traduzione un’arma per viaggiare senza perdere sé stesso.
Forse è proprio qui che si trova uno dei segreti della longevità di Astérix: nel suo saper diventare, di volta in volta, un eroe parlante mille lingue diverse, tutte unite da un’unica, inossidabile risata.
I Galli attaccano…
Dal sogno gaullista di una Francia capace di resistere, forte del mito di una nation debout (nazione in piedi), alla visione più ironica e pacificatrice di René Goscinny, figlio di esuli polacchi ed ebrei e spirito cosmopolita per vocazione, Astérix non è mai stato un fumetto semplicemente nostalgico. Piuttosto, è una favola moderna che parla di radici e di ponti, di una periferia che non vuole diventare provincia dimenticata né impero arrogante. Un piccolo villaggio che difende la propria autonomia con testardaggine, ma che non si chiude in un fortino. Al contrario, è sempre pronto a ridere di sé, a stuzzicare l’ospite e, alla fine, ad accoglierlo a tavola.
Questa tensione tra difesa identitaria e apertura, tra fierezza locale e spirito cosmopolita, attraversa ogni singola avventura. Oggi più che mai, con Jean-Yves Ferri (testi, dal 2013 al 2021), Didier Conrad (disegni, dal 2013) e
Fabrice Caro, in arte Fabcaro (testi, dal 2023), eredi rispettosi e (soprattutto) coraggiosi di Goscinny e Uderzo, la saga continua a viaggiare, a esplorare nuovi confini geografici e simbolici. Gli album itineranti, come Astérix e la corsa d’Italia (Astérix et la Transitalique, 2017) o Astérix e il Grifone (Astérix et le Griffon,2021), raccontano di strade polverose, popoli sconosciuti e lingue da decifrare, ma soprattutto mettono in scena, di nuovo, l’eterno gioco tra stereotipi e dialogo, con la risata come antidoto alle frontiere chiuse. Astérix ci ricorda che i cliché possono essere smontati, che i confini non sono muri invalicabili ma linee da attraversare con curiosità. Ci insegna che un villaggio (sia esso reale o immaginario) può diventare un simbolo globale se custodisce un messaggio semplice e universale di unione
nella diversità, di comunità che resiste ma non esclude. Ed è proprio qui che sta la lezione più preziosa di Astérix, che rende il suo messaggio più attuale che mai, anche sessantacinque anni (e qualche mese…) dopo la prima scazzottata tra Galli e legionari. Album dopo album, Astérix ci ricorda che le piccole differenze possono diventare un grande collante e, finché in qualche angolo del mondo ci sarà un villaggio pronto a difendere la sua pozione magica di parole, risate e libertà, ci sarà sempre speranza di resistere e poi di brindare tutti insieme attorno a un tavolo imbandito… bardo escluso, naturalmente.
Da sinistra: Asterix, Obelix, Idefix, il druido Panoramix e il bardo Assurancetourix
Astérix il Gallico
(Astérix le Gaulois, 1961)
René Goshinny: testi
Albert Uderzo: disegni
Francia
editore: Dargaud
1a pubblicazione
a puntate su
Pilote
dal 29 ottobre 1959
al 14 luglio 1960
1a pubblicazione
in volume
ottobre 1961
Italia
editore: Arnoldo
Mondadori Editore
traduzione e
adattamento:
Marcello Marchesi
1a pubblicazione
in volume
febbraio 1968
Album di Astérix
(editi in Italia)
Serie principale
Réne Goscinny — testi
Albrt Uderzo — disegni
Albert Uderzo — testi e disegni
Jean-Yves Ferri — testi
Didier Conrad - disegni
Fabcaro (Fabrice Caro) — testi
Didier Conrad — disegni
Omnibus
Albi fuori serie
Albi tratti dai lungometraggi
Libri gioco
I menhir, dal bretone men (pietra) e hir (lunga), sono grandi blocchi di pietra monolitici eretti in epoca preistorica, soprattutto durante il Neolitico. Non vanno confusi con i dolmen, che invece sono strutture megalitiche composte da più pietre disposte a portale. Alcuni menhir raggiungono altezze sorprendenti, come il celebre Grand Menhir Brisé di Locmariaquer, in Bretagna, che superava i venti metri. Potevano essere innalzati isolati o disposti in gruppi, con forme in genere squadrate e talvolta affusolate verso la sommità. Sebbene siano diffusi in varie parti del mondo — Europa, Africa e Asia — la loro concentrazione più alta si trova nell’Europa occidentale, in particolare in Bretagna e nelle isole britanniche. I menhir appartengono alla vasta tradizione della cultura megalitica, che per millenni ha segnato il paesaggio di numerose civiltà preistoriche.↩︎
Lo svevo (Schwäbisch in tedesco) è una varietà linguistica appartenente al gruppo alemanno dell’alto-tedesco, diffusa soprattutto in alcune zone del Baden-Württemberg e della Baviera. È strettamente imparentato con il bavarese e mantiene caratteristiche distintive rispetto al tedesco standard. Le principali città dove è più vivo sono Stoccarda, Augusta, Ulma, Reutlingen e Tubinga. Inoltre, comunità di parlanti svevo si trovano anche tra le minoranze tedesche in Ungheria, Russia e Romania.↩︎
Il bavarese (Boarisch o Bairisch) è una lingua appartenente al gruppo del tedesco superiore (Oberdeutsch), evolutasi dall’alto tedesco antico. Viene parlata soprattutto nella Germania meridionale e in Austria, ma è presente anche nel nord-est dell’Italia, in particolare nella provincia autonoma di Bolzano e in alcune isole linguistiche del Trentino, Veneto e Friuli.↩︎
Il termine calembour si riferisce a un gioco di parole che sfrutta l’omofonia, cioè la somiglianza o l’identità di pronuncia tra parole dal significato differente. Questo espediente linguistico è stato ampiamente utilizzato in contesti diversi, dalla letteratura alla pubblicità, dal teatro alla comunicazione politica, per creare effetti ironici, satirici o semplicemente divertenti.↩︎
L’occitano, noto anche come lingua d’oc (occitan o lenga d’òc nella forma originale), è una lingua appartenente al ramo delle lingue romanze. Viene parlato in un’area dell’Europa meridionale chiamata Occitania, una regione culturale senza confini politici precisi, approssimativamente corrispondente alla Francia meridionale, nota anche come Midi.↩︎
Il romancio (rumantsch, romontsch o rumauntsch) è una lingua romanza parlata in Svizzera, appartenente al sottogruppo delle lingue retoromanze. Condivide molte affinità con il ladino e il friulano, lingue sorelle diffuse in alcune regioni del nord Italia.↩︎