Author: Anders Ge.
In piena crisi privata e logorato da un tour imminente, George Harrison incide di corsa Dark Horse con la voce già spezzata dalla raucedine e dalle vicessitudini. Stroncato all’uscita, il disco ritrae un ex-Beatles che preferisce la vulnerabilità al mito.
Un’introduzione
Nel 1974 avevo 6 anni, non ho quindi ascoltato il disco di George Harrison quando uscì. Non tanto perché ero piccolo, ma perché non avevo ancora la possibilità di accedere alla musica in autonomia, come sarebbe successo solo qualche anno più tardi, per mia somma soddisfazione. In verità, ho scoperto il disco di Harrison parecchi anni dopo, molto più tardi di quando, più o meno a 15 anni, mi procurai il triplo LP All Things Must Pass, che mi portò a pensare che negli anni precedenti non mi ero sbagliato: Harrison era sicuramente il mio Beatles preferito (perché i Beatles si che li ascoltavo da quando avevo 6 anni — o forse sette, non ricordo bene — ma questa è un’altra storia). Erano gli anni metal, gli anni hard rock e io non avevo tempo per la musica di artisti dei Sessanta, pur amandoli, perchè non avevano i riff indemoniati, le chitarre distorte e tutto quel
bagaglio musicale e sociale che si portavano dietro. E dire che la musica degli anni Settanta mi ha sempre entusiasmato, anche a quei tempi, ma si parlava sempre di musica di genere (Deep Purple, White Snake, Black Sabbath e molti altri del giro). Ma il tempo fa rivedere molte cose con un occhio diverso, specialmente se la passione non scema, anzi, cresce di pari passo con la voglia di scoprire e, soprattutto, riscoprire artisti e generi che fino ad allora erano stati ignorati o, come nel caso specifico, messi da parte. Nel 1992 Dark Horse venne riversato su CD e l’anno successivo lo acquistai — insieme al cofanetto in 2CD di All Things Must Pass — e potei finalmente ascoltarlo. In quegli anni non ero a conoscenza dei retroscena e delle opinioni sul disco, così lo ascoltai senza pregiudizi di sorta, a mente libera. Mi piacque da subito e rimase uno degli ascolti fissi e ricorrenti per parecchio tempo. Qualche giorno fa, parlando di
musica anni Settanta con un amico, mi è tornato in mente il disco di Harrison che ho prontamente riascoltato con rinnovato piacere, rendendomi conto di come si sia mantenuto bene in tutti questi anni e mi è venuta la voglia di parlarne, perché è un disco che va conosciuto. Un disco importante.
Quella che segue è una piccola dissertazione, certamente non completa (in rete potete trovare pagine e pagine sulla questione “Dark Horse”), ma penso comunque esaustiva, che possa far capire un po’ meglio il disco. Una cosa è però importante: questa non è una recensione.
1974: l’anno in cui tutto si complica
Fra gennaio e dicembre 1974, George Harrison tenta di essere simultaneamente marito in crisi, fondatore della sua una nuova etichetta discografica Dark Horse Records, produttore per Ravi Shankar e gli Splinter e front-man di un tour nord-americano programmato con mesi d’anticipo. Sullo sfondo, la pressione esplode da ogni lato. Torna a bere in modo pesante, riprende le droghe come ai tempi dei Beatles e moltiplica le relazioni extraconiugali. Pattie Boyd, stanca dei tradimenti del marito, trova consolazione prima fra le braccia di Ron Wood (allora chitarrista dei Faces, prima di entrare a far parte dei Rolling Stones) e poi, nel luglio ’74, con l’amico di famiglia Eric Clapton (con cui si sposò nel 1977). Dal canto suo, Harrison risponde intrecciando relazioni con Maureen Starkey — moglie di Ringo Starr — e con Krissy
Wood, consorte di Ron. La stampa scandalistica si scatena, Wood parla apertamente ai giornalisti del legame con Pattie, mentre i tabloid inseguono voci su un flirt di George con la modella Kathy Simmonds, ex di Rod Stewart. Una vera e propria “soap opera musicale” che finisce inevitabilmente per riversarsi in Dark Horse. Lui stesso, nella sua autobiografia I, Me, Mine (Genesis Publications, 1980; Rizzoli, 2002), battezzerà quel frangente “a bad domestic year”, un anno famigliare terribile. Tra scadenze serrate e tensione alle stelle, Harrison è costretto a chiudere il disco quasi di corsa, ritrovandosi con una laringite acuta pregressa che si aggrava ulteriormente, minandolo nel fisico e amplificando la fatica, oltre a farsi sentire nelle registrazioni. Non un disco concepito in tranquillità, quindi, ma la fotografia di un momento in cui lavoro, spiritualità e disillusione si scontrano, con tutte le
conseguenze del caso.
Da Friar Park a Los Angeles: sessioni sotto pressione
Le sessioni di registrazione Dark Horse si consumano in un vortice di creatività frenetica e disordine esistenziale. George Harrison, stretto tra la scadenza di un tour nord-americano ormai fissato e il peso di battaglie interiori sempre più pressanti, incide gran parte del disco nel suo studio privato FPSHOT a Friar Park, vicino a Henley-on-Thames (FPSHOT è appunto l’acronimo di “Friar Park Studios, Henley-on-Thames”). Accanto a lui, tra gli altri, c’è la solita cerchia di amici: Ringo Starr e Jim Keltner alla batteria, Klaus Voormann al basso, Billy Preston organo e piano, Ronnie Wood, Alvin Lee e Robben Ford alle chitarre, mentre Lon e Derrek Van Eaton puntellano i cori. Pochi, scelti e spesso amici di lunga data. Il groove nasce dall’intesa più che dalla quantità di tracce. Ma l’atmosfera è
tesa, i turni di registrazione tirati all’alba, prove per la tournée nel pomeriggio, notti passate a limare arrangiamenti che il giorno dopo dovranno già essere definitivi. Harrison confesserà di aver dovuto «correre per chiudere certi brani prima di salire sull’aereo»; tra questi, la stessa “Dark Horse”, rifatta di corsa in uno studio di Los Angeles quando la sua voce, logorata da stress e superlavoro, era già roca e spezzata. Durante una conferenza stampa, l’ex-Beatles racconta senza filtri: «Il problema di Dark Horse è che non avevo finito l’album quando sono partito per gli Stati Uniti. Ho insegnato il pezzo alla band, l’abbiamo registrato dal vivo sul palco, e a quel punto la mia voce era completamente distrutta». Parole che rivelano tutta la vulnerabilità di un artista disposto a sacrificare se stesso pur di non rallentare la corsa del proprio progetto musicale, trasformando l’impasto di stanchezza e improvvisazione in una cifra espressiva
irripetibile.
Autenticità specchio del momento
A differenza della grandiosità corale di All Things Must Pass e dell’opulenza orchestrale di Living in the Material World, Dark Horse imbocca volutamente la corsia di sorpasso in senso inverso. Riduce e scarnifica, punta al nucleo emotivo. In studio Harrison sceglie un suono ruvido, quasi ascetico, che non addolcisce né la raucedine della sua voce né le incrinature del momento. Il tappeto timbrico è comunque inconfondibile, Moog1 e clavinet2 punteggiano le pieghe funk, l’organo allunga riverberi gospel, persino il gubguba3 indiano fa capolino a ricordare le sue radici spirituali. Il vero collante resta comunque la chitarra di
George — acustica, elettrica e, soprattutto, quella slide4 che è diventata la sua firma — suonata in prima persona su quasi tutte le tracce. Intorno a lui l’ensemble è ridotto ma compatto, abbastanza essenziale da lasciare respirare ogni dettaglio e al tempo stesso denso di sfumature che evitano la piattezza. Questa sobrietà, lontana dalla muraglia di suono dei primi lavori solisti, rispecchia il bisogno di Harrison di rientrare in se stesso e di far parlare l’emozione prima di qualsiasi decorazione di studio.
Le “giornate Courvoisier”
Tra gli elementi che più colpiscono in Dark Horse c’è la sua dimensione apertamente confessionale. Harrison, immerso in uno dei momenti più turbolenti della sua esistenza, riversa su nastro la miscela di eccessi — alcol, droghe, infedeltà — e una feroce auto-analisi. Le canzoni traducono in musica l’irrequietezza interiore: dalle fratture con Pattie Boyd alle indiscrezioni sulle sue relazioni, fino agli attacchi della stampa, tutto viene raccontato con una schiettezza rara nella scena rock di metà anni Settanta. L’ironia amara di “Bye Bye Love”, cover “riveduta e corretta” della hit del 1957 del duo statunitense The Everly Brothers, che Harrison dedica a Pattie Boyd e all’amico Eric Clapton, aggiunge un ulteriore strato: dietro l’apparente leggerezza della rilettura della canzone, Harrison allude al definitivo addio dell’ex moglie e alla presenza ingombrante di Clapton. È il modo di George per
riconoscere i propri fallimenti, esporli senza veli e cercare di superarli attraverso la musica. Mesi, le “giornate Courvoisier”, come le ribattezzerà lui stesso, in cui tutto sembra sgretolarsi, eppure proprio allora la musica diventa l’unico canale per incanalare il dolore. Dark Horse nasce così, come un atto di catarsi, un urlo privato trasformato in arte pubblica, dove la vulnerabilità si fa forza creativa. Se All Things Must Pass celebrava la luce, Dark Horse affronta la zona crepuscolare fra desiderio e distacco. “Māya Love” mette in musica il concetto induista di māyā (illusione), mentre “Far East Man” parla di amicizia fedele in un mondo instabile. La dualità luce-ombra percorre tutto il disco, mostrando un uomo intrappolato fra fede e tentazioni.
“Dark Hoarse”, pubblico, stroncature e classifiche
Quando si parla di Dark Horse, non si può separarlo dal gigantesco cantiere itinerante che George Harrison accese nell’autunno del 1974: la sua prima tournée nord-americana dopo gli anni Beatles. In teoria l’operazione avrebbe dovuto rilanciare l’ex “Beatles silenzioso” sul mercato USA ma, in pratica, trasformò l’album in un bersaglio mobile. Ogni sera, davanti ad arene gremite, logorata da settimane di prove, notti di studio di registrazione, alcool e un principio di laringite, la voce di Harrison si sbriciolava sotto i riflettori, spiazzando pubblico e stampa, che ribattezza il tour “Dark Hoarse” (in inglese “hoarse” significa “rauco”). Le recensioni, ovviamente, non fecero sconti: Jim Miller su Rolling Stone lo definì un lavoro fiacco, in cui buone canzoni venivano svuotate da un canto stanco; NME e Robert Christgau
rincararono la dose, parlando di disco “predicatorio” e “smorto”, sintomo di un artista divorato dai propri eccessi. L’equazione era semplice: performance vocali opache = ispirazione in calo. Per molti osservatori, Dark Horse segnava il punto di contatto fra crisi privata e cedimento creativo. Col tempo, però, quelle stesse crepe hanno iniziato a raccontare un’altra storia e più in generale la critica degli ultimi trent’anni ha riletto brani come la title-track o “Far East Man” come esempi di songwriting robusto, in cui la ruvidità della voce diventa parte del messaggio. Non un difetto quindi, ma la prova di quanto Harrison fosse disposto a sacrificare la patina pur di restare sincero. La stessa brutalità che ai giornali del ’74 parve indice di decadenza, appare oggi come garanzia di autenticità. Dark Horse resta un disco imperfetto, certo, ma proprio per questo vivo. Nelle sue sbavature vibra l’impegno di un uomo che, invece di
ripararsi dietro l’immagine di mito intoccabile, sceglie di mostrare le proprie crepe, trasformandole in testimonianza musicale di sorprendente potenza emotiva.
Comunque, negli USA il disco raggiunge la 4° posizione nelle classifiche e diventa disco d’oro. In Gran Bretagna, invece, non entrò nemmeno nella Top 75, evento inedito per un Beatles. L’onda lunga del tour catastrofico amplifica il coro di delusi.
Una lenta riabilitazione
Col passare dei decenni, Dark Horse si è rivelato un prisma dai riflessi imprevedibili, ricco di indizi su un momento di svolta nella parabola artistica di George Harrison. Quello che nel 1974 appariva come un inciampo, l’opera di un ex-Beatles ormai stanco, con la voce spezzata e le idee confuse, oggi si manifesta come la radiografia di una metamorfosi in atto.
L’occhio severo della critica di metà anni Settanta, purtroppo ancora legata all’idea di un ex-Beatles in caduta libera, ancorata all’immagine del “Beatles mistico” e alla grandezza di All Things Must Pass, si concentrò sulle crepe e trascurò il cantiere. Solo col tempo quelle crepe sono state lette per ciò che erano: fessure da cui filtrava una luce nuova, più intima e meno rassicurante. Letture più sfumate, capaci di cogliere in quel disco la cronaca di un uomo che guarda in faccia le proprie debolezze e le sue crepe, per poterne uscire
trasformato.
Le ristampe che si sono succedute hanno aperto il cassetto delle versioni alternative e dei demo inediti, offrendo agli ascoltatori un accesso ravvicinato al laboratorio caotico, ma fertile, in cui Harrison operava durante quel periodo turbolento. Take alternative, demo acustici e rough mix hanno permesso di spiare il dietro-le-quinte di un processo creativo febbrile. I nastri grezzi mostrano Harrison che lotta con linee vocali imperfette, sperimenta timbri funk, sovrappone mantra e fiati soul, riscrivendo versi all’ultimo minuto. Quel work-in-progress costante spiega molto di ciò che l’album comunica oggi e che non è la caduta di un eroe, ma il tentativo, sofferto e autentico, di reinventarsi lontano dalla mitologia dei Beatles. La ristampa in CD del 1992 e la box The Apple Years del 2014 permettono un secondo ascolto molto significativo. Bonus track come la demo acustica di “Dark Horse” o il B-side “I Don’t Care Anymore” rivelano un autore
vulnerabile ma lucido. Nel 2024 con il 50º anniversario del disco, la versione super-deluxe porta con sé remix e saggi critici che leggono l’album come anticipazione del rock confessionale anni ’90. Oggi Dark Horse gode dello status di opera di culto, un documento sonoro in cui celebrità e fragilità si intrecciano, generando un’intensità emotiva rara. Per molti resta un faro per orientarsi nelle contraddizioni del nostro tempo, ricordando che accettare la complessità — invece di mascherarla — può dare vita a musica capace di parlare in profondità all’esperienza umana.
Riascoltato alla luce di questa prospettiva, Dark Horse emerge come un’opera‐ponte fra due stagioni musicali. Da un lato raccoglie l’eco degli anni Sessanta, con il gusto per la slide carezzevole e l’approccio spirituale alla scrittura; dall’altro anticipa la vulnerabilità esibita degli anni Novanta, esibita come marchio di sincerità. Non a caso, diversi songwriters contemporanei citano proprio
questo disco come “lezione di onestà brutale”. Una conferma che l’emotività ruvida di brani come “Far East Man” o della stessa title-track parla ancora a chi, oggi, cerca nella musica un alleato contro l’alienazione quotidiana.
L’eredità del cavallo scuro
Dark Horse resta un caso di studio su come trasformare il caos in arte. Le sue imperfezioni — voce roca, mix frettoloso, umore altalenante — sono oggi viste come segni di un’artista che si espone senza filtri. Nel 1974 George Harrison è un uomo in mezzo alla tempesta: il matrimonio con Pattie Boyd sta saltando, le notti in studio si mescolano ai preparativi di un tour americano estenuante e l’alcol comincia a pesare quanto la chitarra. In questo clima registra Dark Horse in fretta, spesso tra una prova e l’altra, rinunciando a ogni levigatura pur di fissare al volo quello che prova. Ne esce un disco scarno, quasi sgraziato: pochi overdub5, molta slide, la voce roca per la laringite lasciata com’è, come se la crepa diventasse parte integrante dello strumento. I testi senza cercare metafore rassicuranti
parlano di tradimenti, di dipendenze, di spiritualità che vacilla sotto il peso della vita reale. All’uscita la critica lo demolisce e il pubblico rimane spiazzato: poco raffinato, troppo distante dalle aspettative post-Beatles. Col tempo, però, quel “difetto” si rivela la sua forza e Dark Horse viene riletto come un atto pionieristico, coraggioso e sincero di rock vulnerabile, un episodio in cui l’autenticità vale più della formalità. Oggi l’album è considerato un documento prezioso sulla resilienza artistica, mostra come la fragilità, se esposta con onestà, possa trasformarsi in energia creativa e parlare ancora a chi cerca musica capace di illuminare ombre personali e collettive.
George Harrison non tornerà mai allo splendore commerciale dei primi anni ’70, ma regala al rock una prova di vulnerabilità prima che diventasse di moda farlo. E lo fa con estrema sincerità. Ma, soprattutto, continua a toccare gli ascoltatori sul piano umano, ricordando
che la celebrità non immunizza dalla paura, che mostrare le proprie ferite può avere una forza catartica e che, talvolta, la rinascita passa proprio attraverso il riconoscimento delle zone d’ombra.
Perché riascoltarlo oggi: l’eredità del cavallo (o)scuro
Giungere alla fine di questo (semplificato) viaggio dentro Dark Horse equivale a varcare la soglia di uno studio di registrazione divenuto confessionale. Nell’autunno del 1974 George Harrison è un uomo in mezzo alla tempesta. Reduce dall’altitudine vertiginosa dei Beatles e dagli applausi che avevano accolto All Things Must Pass, sceglie consapevolmente una strada in salita. Spoglia i brani di ogni orpello, le notti in studio si mescolano ai preparativi di un tour americano estenuante e l’alcol comincia a pesare probabilmente più della chitarra permettendo alle proprie fratture di vibrare senza filtro. A posteriori appare chiaro che l’azzardo era duplice. Da un lato c’era la sfida commerciale di proporre un lavoro così grezzo in un decennio che diventava sempre più patinato, dall’altro l’esposizione personale tramite testi che raccontano matrimoni in frantumi, amicizie tradite,
sogni spirituali messi a dura prova dalla dipendenza e dal cinismo dell’industria discografica. Harrison decide che la fragilità non va truccata ma, anzi, va amplificata e che il suono non deve coprire l’anima, ma renderla intellegibile anche nella sua ruvidità. Così, dagli interstizi di chitarre slide, fiati funk e mantra indiani, affiora la radiografia di un uomo in piena mutazione. All’uscita la critica lo demolisce e il pubblico rimane spiazzato: troppo grezzo, troppo distante dalle aspettative post-Beatles. Ma il giudizio del tempo, sempre meno incline ai verdetti tranchant, rovescia la prospettiva. Oggi Dark Horse appare un atto pionieristico, coraggioso e sincero; il prototipo di quel sound vulnerabile che avrebbe preso piede negli anni Novanta, molto prima che l’autobiografia brutalmente sincera diventasse una virtù di mercato. La laringite, un tempo additata come difetto, risuona ora come un timbro di autenticità; gli arrangiamenti essenziali, derisi
come approssimativi, suonano come scelta estetica precisa; la confessione lirica, condannata come lamentazione, si rivela atto di coraggio in un panorama che preferiva la bella patina al vissuto. Un episodio in cui l’autenticità (vera) vale più della formalità.
Dark Horse parla dunque a chiunque intraprenda un cammino creativo o personale, insegna che la caduta non è l’antitesi del successo ma la sua dimensione più onesta, che la verità a volte è scomoda, ma sempre più duratura di qualsiasi stratagemma cosmetico. George Harrison ci offre un manuale di sopravvivenza emotiva, trasforma la delusione in materia sonora e mostra che la bellezza — quella che resta e non teme le mode — nasce dall’incontro tra luci e ombre, non dalla loro negazione.
Riascoltare oggi questo disco, perfetto nella sua imperfezione, significa non pretendere di ricevere soluzioni, bensì di condividere il peso del dubbio e la fiammella della speranza. Nelle pieghe e nei riff
di Dark Horse si avverte il battito di un cuore che, pur se ferito, insiste nel ritmo. Ecco perché, al di là delle classifiche, l’album continua a parlare e ci ricorda che ogni sconfitta contiene il germe di una rinascita, che persino un cavallo apparentemente esausto può sorprendere. Che vulnerabilità e forza possono diventare la stessa cosa.
Non è poco.
George Harrison
Dark Horse
Rock
Pop
Apple Records
20 dicembre 1974
Track List
Side A
1 Hari’s on Tour (Express) – 4:43 (Harrison)
2 Simply Shady – 4:38 (Harrison)
3 So Sad – 5:00 (Harrison)
4 Bye Bye Love – 4:08 (Bryant — Bryant — Harrison)
5 Māya Love – 4:24 (Harrison)
Side B
1 Ding Dong, Ding Dong – 3:40 (Harrison)
2 Dark Horse – 3:54 (Harrison)
3 Far East Man – 5:52 (Harrison — Wood)
4 It Is “He” (Jai Sri Krishna) – 4:50 (Harrison)
2014 CD Reissue
Bonus Tracks
1 I Don’t Care Anymore – 2:44 (Harrison)
2 Dark Horse (Demo version) – 4:25 (Harrison)
—
George Harrison – voce (A2–5 - B1-4), chitarra acustica ed elettrica (A1-5 - B1-4), sintetizzatore Moog (A4 - B4), clavinet (A3-4 - B1), organo (B1), basso (A4), percussioni (A4,5 - B1,4), gubguba (B4), batteria (A4), cori (A2-5 - B1,3,4)
Tom Scott – sassofono (A1,2,5 - B1,3), flauto (B2,5), arrangiamento fiati (A1,2,5 - B1,3), organo (1)
Billy Preston – pianoforte elettrico (A5 — B2,3), organo (B5), piano (B5)
Willie Weeks – basso (A3,5 — B2-5)
Andy Newmark – batteria (A5 — B2-4), percussioni (B3)
Jim Keltner – batteria (A3 — B1,2)
Robben Ford – chitarra elettrica (A1,2), chitarra acustica (B2)
Jim Horn – flauto (B2,4)
Chuck Findley – flauto (B2,4)
Emil Richards – percussioni (B2,4)
Ringo Starr – batteria (A3 — B1)
Klaus Voormann – basso
(B1) Gary Wright – piano (B1)
Nicky Hopkins – piano (A3)
Roger Kellaway – piano (A1,2), organo (A2)
Max Bennett – basso (A1,2)
John Guerin – batteria (A1,2)
Ron Wood – chitarra elettrica (A1)
Alvin Lee – chitarra elettrica (A1)
Mick Jones – chitarra acustica (A1)
Lon & Derrek Van Eaton – cori (B2)
Il Moog è una famiglia di sintetizzatori a tastiera ideata dall’ingegnere statunitense Robert Moog e presentata per la prima volta nel 1964. Nel tempo ne sono stati prodotti diversi modelli, fra cui spiccano il compatto Minimoog e il più articolato Polymoog, entrambi diventati riferimenti per la musica elettronica e pop.
Qui per approfondire.↩︎
Il Clavinet, progettato da Ernst Zacharias per la Hohner, è sostanzialmente un clavicordo elettrificato: le corde vibrano come in uno strumento a tastiera tradizionale, ma il suono viene raccolto da pick-up magnetici, proprio come avviene in una chitarra elettrica.
Qui per approfondire.↩︎
Il Gubguba è uno strumento a corda percussiva diffuso in tutta l’India e noto con decine di nomi locali (gubgubā, khamak, gopijantro, ecc.). È formato da una piccola cassa di risonanza in legno o zucca essiccata attraversata da una corda di budello. Il musicista blocca la cassa sotto l’ascella, afferra l’estremità della corda con la stessa mano e la pizzica con un plettro nell’altra, variandone la tensione per ottenere un suono pulsante che fonde ritmo e melodia. Alcune versioni, come la khamak bengalese, usano due corde per arricchirne l’effetto ritmico e armonico.↩︎
La slide guitar (conosciuta anche come bottleneck guitar) è una tecnica in cui il chitarrista infila sul dito un piccolo cilindro cavo, lo slide (o bottleneck) e lo fa scorrere lungo le corde invece di premere le note sui tasti. Mentre una mano continua a pizzicare, l’altra mantiene lo slide a contatto costante con le corde, creando quel legato scivolato, quasi vocale, con un’intonazione fluida e piena di sfumature, che caratterizza il blues, il country e molto rock. A seconda del timbro desiderato, lo slide può essere di vetro, metallo, ceramica o plastica: il vetro ammorbidisce il suono, il metallo lo rende più brillante e incisivo. Il soprannome bottleneck (in inglese collo di bottiglia) rievoca le origini della tecnica, quando i musicisti si ingegnavano tagliando il collo delle bottiglie.
Qui per approfondire.↩︎
L’overdubbing, o sovraincisione, è una pratica di studio nata negli anni ’50 che permette di aggiungere nuovi suoni o parti strumentali a una traccia già registrata. Il vantaggio principale è la flessibilità: si possono colmare assenze di musicisti, costruire arrangiamenti complessi da soli o stratificare voci e strumenti senza dover registrare tutto in presa diretta.
Qui per approfondire.↩︎