Author: Anders Ge.
In un’epoca in cui il rock sembrava aver trovato i propri confini, tra virtuosismi prog, slanci psichedelici e canoni radiofonici, una formazione londinese li ha infranti a uno a uno, proiettando suoni e visioni oltre ogni orizzonte noto. Gli Hawkwind non sono solo pionieri dello space rock, sono architetti di un universo sonoro in cui la musica diventa un evento sensoriale, narrazione mitologica e provocazione filosofica.
Sin dalla loro fondazione nel cuore dell’underground londinese, gli Hawkwind si sono imposti come una delle esperienze più radicali della musica alternativa europea. Nei primi festival alternativi e nelle comuni hippy, si presentano come un organismo musicale capace di abbattere i confini tra concerto, performance teatrale e trance collettiva. La loro musica, ibrido di rock acido, proto-elettronica e narrazione cosmica, diventa una forma di liberazione sensoriale. A differenza dei contemporanei progressive più strutturati, gli Hawkwind costruiscono un’identità basata sulla fisicità del suono, sull’uso di sintetizzatori analogici e sulla ripetizione ipnotica. I loro concerti diventano navette interstellari, esperienze immersive e visionarie. Non un semplice genere musicale, ma una vera e propria pratica artistica. La distanza dagli ambienti più istituzionali del rock si riflette anche nel loro rapporto con l’industria
discografica, che li ha spesso relegati ai margini. Ma è proprio in questa posizione che la loro arte ha potuto mantenere una libertà creativa (tendenzialmente) intatta.
Lontani dalla raffinatezza dei Pink Floyd o dalle ambizioni cerebrali dei King Crimson, gli Hawkwind adottano un approccio diretto, rituale, quasi sciamanico alla musica, in cui la ripetizione ossessiva dei riff, l’uso massiccio di sintetizzatori analogici, le proiezioni visive e i testi spesso ispirati ai romanzi di fantascienza e fantasy compongono una vera e propria esperienza sensoriale unica e completa. Fin dai loro esordi, l’obiettivo non è solo quello di suonare, ma di trasportare l’ascoltatore in un’altra dimensione e aprire portali mentali verso territori sonori ancora inesplorati, come se ogni disco e ogni concerto fossero un viaggio iperbolico nello spazio e nel tempo.
Nel 1969, Dave Brock e John Harrison danno vita al nucleo originario degli Hawkwind, assieme a Mick Slattery, Terry Ollis, Nik Turner e “Dik Mik” Davies. Provenienti da ambienti musicali e culturali diversi, fondono influenze che spaziano da MC5 e Stooges al krautrock1 di Amon Düül II e Neu!, dal rock psichedelico californiano alla sperimentazione elettronica tedesca. La loro musica, fin dall’inizio, rompe le convenzioni. Non canzoni, ma riti sonori. Distorsioni, oscillatori, improvvisazioni e testi ispirati ad autori come Philip K. Dick e H.G. Wells. Ogni album è un episodio di un universo narrativo espanso, dove la realtà si piega all’immaginazione. Le prime esibizioni nei centri sociali, nei parchi e nei raduni free festival definiscono l’estetica comunitaria e nomade del gruppo. Gli Hawkwind diventano la colonna sonora delle utopie mobili di una generazione. La loro base creativa, il quartiere di Ladbroke Grove di Londra, diventa sinonimo di ribellione contro il conformismo e centro propulsore di una nuova controcultura musicale.
Warrior on the Edge of Time (1975)
Elemento fondante della poetica Hawkwind è la creazione di un mondo immaginario coerente e stratificato. La collaborazione con lo scrittore Michael Moorcock consolida questo impianto narrativo. L’universo del Campione Eterno (Eternal Champion), le dimensioni parallele, le guerre cosmiche diventano parte integrante della musica. Moorcock, già autore di culto nel campo della letteratura fantastica, trova negli Hawkwind un corrispettivo musicale della sua poetica.
Ogni album, ogni brano, è parte di una cosmologia sonora. I concerti si trasformano in happening letterari, viaggi onirici dove parole, immagini e suoni si fondono in un’esperienza talizzante. L’intento è costruire un linguaggio alternativo, una mitologia contemporanea fatta di fantascienza e
psichedelia, in cui si inseriscono anche collaborazioni con altri poeti e artisti. Il concept album diventa per loro una narrazione continua, non limitata a un solo disco ma estesa all’intera carriera.
Nel periodo compreso tra il 1971 e il 1975, gli Hawkwind attraversano una fase di eccezionale fertilità creativa, durante la quale danno alla luce una sequenza di album che non solo segnano la vetta espressiva della loro carriera, ma contribuiscono in modo decisivo alla definizione dello space rock: In Search of Space* (1971), Doremi Fasol Latido (1972), Hall of the Mountain Grill (1974) e Warrior on the Edge of Time (1975), quattro dischi che rappresentano veri e propri monumenti sonori, capaci di sintetizzare visioni acide, tensioni futuriste e una propulsione ritmica che anticipa molte delle sonorità che esploderanno negli anni successivi, dal punk all’elettronica industriale. Con questi album si definisce l’identità sonora della band, fatta di strutture cicliche, stratificazioni elettroniche, riff minimali e un uso della voce come strumento narrativo. Nucleo
vitale è senza dubbio il chitarrista Dave Brock, tra le menti fondatrici del gruppo. La sua chitarra, grezza, diretta e priva di fronzoli, attraversa i brani con un’inquietudine proto-punk che non teme l’imperfezione e fa del caos un valore espressivo. Ma il suono degli Hawkwind non si esaurisce nella chitarra e a renderlo davvero unico è l’intreccio costante e inebriante con l’elettronica, affidata alle manipolazioni di Del Dettmar, entrato nella band nel 1971, dopo l’abbandono di “Dik Mik” Davis, rientrato però immediatamente per restare fino alla registrazione del doppio album dal vivo Space Ritual (1973). I due pionieri del suono sintetico non si limitano a riempire lo sfondo di effetti, ma costruiscono vere e proprie architetture sonore, spesso astratte, che dilatano lo spazio e il tempo della musica, con l’intento di trasformare ogni brano in un’esperienza oltre che sonora, anche percettiva.
In
questo periodo, la band lavora su strutture circolari e ipnotiche. Le canzoni spesso non seguono uno sviluppo lineare tradizionale, ma si basano su ripetizioni rituali, loop ossessivi e improvvise accelerazioni. L’arrivo del carismatico Lemmy Kilmister (che lasciati gli Hawkwind, nel 1975, formerà una delle band heavy metal più influenti e importanti, i Motörhead) con il suo basso pulsante e ruvido e occasionalmente anche alla voce, introduce una pulsazione energica e grezza, che culmina nel singolo Silver Machine (1972), divenuto un inno underground.
Il basso e la batteria martellante costruiscono una base ritmica solida, mai statica, che sostiene i voli delle chitarri, gli aliti del sassofono e del flauto e le “interferenze” dei sintetizzatori. Il risultato è un impasto sonoro compatto e al tempo stesso espansivo, in grado di evocare paesaggi interplanetari, visioni apocalittiche e
(soprattutto?) sogni allucinati.
In Search of Space, introduce l’universo degli Hawkwind: un disco che già nel titolo rivendica la volontà di esplorare nuove dimensioni sonore. L’album è un manifesto estetico, fatto di viaggi mentali e dilatazioni lisergiche, sorretto da una narrazione frammentata e visionaria. Il successivo Doremi Fasol Latido, invece, accentua i toni oscuri e ruvidi: la band affila i propri strumenti e si lancia in una cavalcata psichedelica che sembra uscita direttamente da un incubo cibernetico. Con Hall of the Mountain Grill, gli Hawkwind trovano un equilibrio più melodico, senza rinunciare al caos controllato che li caratterizza. L’album è un momento di riflessione sonora, in cui si percepisce un certo lirismo, quasi romantico, che rende l’ascolto più stratificato. Ma è con Warrior on the Edge of Time che la band raggiunge probabilmente il suo apice artistico. Opera ambiziosa, impreziosita
dalla narrativa fantasy di Michael Moorcock, che, oltre a collaborare attivamente alla scrittura dei testi, è la voce narrante in due brani (The Wizard Blew His Horn e Warriors) e partecipa con spoken word teatrali durante i concerti. Qui la musica diventa epica, quasi mitologica, sospesa tra space rock, progressive e proto-metal.
Lo spazio sonoro è costruito attraverso un uso consapevole del rumore, del silenzio e della sovrapposizione di trame ritmiche. Gli Hawkwind sviluppano un suono ipnotico, rituale, destinato a innescare uno stato alterato di percezione. È un rock che non cerca la celebrazione di sé, ma la trasformazione dello stato di coscienza, un flusso continuo che abolisce la struttura strofa-ritornello e si sviluppa per accumulazione.
Più che un gruppo nel senso tradizionale, gli Hawkwind si sono presentati spesso come un collettivo aperto, in continua evoluzione, in cui idee, stili e sensibilità artistiche potevano convergere liberamente e, nel corso della loro lunga e movimentata carriera, hanno dimostrato una straordinaria apertura alla contaminazione creativa. Questa fluidità strutturale ha reso possibile la partecipazione di numerosi artisti (musicisti, scrittori o artisti visivi) che hanno lasciato un’impronta indelebile sulla poetica del gruppo.
Come detto, Michael Moorcock contribuisce con testi e spoken word, arricchendo l’immaginario con elementi letterari e Lemmy, prima di fondare i Motörhead, dona alla band una forza brutale che lascia un segno indelebile. Anche Robert Calvert, eclettico poeta e frontman, apporta un forte contributo concettuale e teatrale, rendendo gli spettacoli degli Hawkwind eventi non solo musicali ma
performativi, quasi teatrali nel senso più rituale del termine. Il gruppo introduce nei propri spettacoli la danza (è celebre l’inclusione della ballerina Stacia e delle sue performance), proiezioni psichedeliche, costumi teatrali, creando una fusione fra arte visiva, narrativa e musica che anticipa molte delle future esperienze del rock progressivo e dell’arte performativa elettronica.
Nella formazione si trovano spesso ospitati musicisti e artisti per brevi periodi, che contribuiscono a creare un ambiente fluido, dove le personalità entrano ed escono ma l’identità collettiva resta viva. Il valore dell’esperienza condivisa e dell’arte collettiva ha definito l’intera filosofia artistica degli Hawkwind. Gli arrangiamenti non nascono dalla logica gerarchica del “leader-compositore”, ma dal caos creativo del gruppo. L’arte visiva, la danza, le scenografie lisergiche e le proiezioni
psichedeliche si uniscono alla musica per creare un happening totale.
Stacia Blake
L’impatto degli Hawkwind si estende ben oltre lo space rock. L’uso dell’elettronica prefigura ambient, industrial e techno. L’estetica psichedelica e la struttura dei brani, privi di strofa e ritornello, anticipano molte delle soluzioni compositive adottate nel post-rock e nella musica elettronica concettuale. La loro attitudine DIY (Do It Yourself — fai da te) ha ispirato non solo band musicali, ma collettivi artistici e sperimentatori audiovisivi. Artisti come John Lydon (noto anche come Johnny Rotten, cantante dei Sex Pistols e fondatore dei Public Image Ltd.), Throbbing Gristle, Spiritualized, Godspeed You! Black Emperor, Kyuss, riconoscono il debito. Anche band come Monster Magnet* o Ozric
Tentacles hanno attinto direttamente all’eredità della band di Ladbroke Grove. L’influenza della band si avverte in tutto ciò che fonde psichedelia, narrativa visionaria e un’etica controculturale. Lo stesso Lemmy, dopo la rottura con la band arrivata nel 1975, quando viene allontanato dal gruppo dopo un arresto per possesso di sostanze stupefacenti al confine canadese, porterà nei suoi Motörhead anche l’eco degli Hawkwind, rielaborata in chiave hard rock e proto-metal, poi consacrata in puro heavy metal.
Non a caso, i festival di musica alternativa più indipendenti continuano a ospitare progetti figli di quella visione, un rock che non è solo musica, ma proposta di vita.
Gli Hawkwind… ieri
Un aspetto peculiare degli Hawkwind è la loro capacità di rinnovarsi nel tempo senza mai rinunciare alla propria identità e unicità. Questo equilibrio tra trasformazione e coerenza ha permesso alla band di rimanere rilevante in decenni molto diversi tra loro per linguaggi e aspettative culturali. Negli anni Ottanta, ad esempio, mentre molte band della vecchia guardia si arrendevano alla plastificazione sonora della new wave, gli Hawkwind pubblicavano dischi che tentavano la fusione tra sequencer digitali, atmosfere ambientali e retaggi space rock. Album come Choose Your Masques (1983) o The Chronicle of the Black Sword (1985), concept album ispirato all’epopea di Elric di Melniboné (e della sua spada senziente Stormbringer — Tempestosa nella traduzione italiana dei libri), figura archetipica dell’eroe tragico, sempre dello scrittore Michael Moorcock (come già in
precedenza era stato per l’album Warrior on the Edge of Time), testimoniano una notevole padronanza dell’evoluzione stilistica, senza scivolare mai nel manierismo.
L’aspetto forse più sorprendente è la loro capacità di mantenere vivo il senso di collettività e coinvolgimento. I fan della band non sono semplici ascoltatori, ma parte di una comunità transgenerazionale che ha visto passare figli, nipoti, fratelli e sorelle tra i ranghi delle “navette interstellari” dei live show. I concerti degli Hawkwind non sono solo show musicali, ma veri e propri eventi, in cui l’esperienza sonora si fonde con quella visiva, sensoriale e affettiva. Negli anni recenti, nonostante l’età avanzata di molti membri storici, la band ha continuato a sperimentare con nuovi linguaggi e nuovi formati. L’album Carnivorous del 2020, pubblicato sotto il nome The Hawkwind Light Orchestra, un progetto parallelo nato durante il
periodo di lockdown legato alla pandemia da Covid-19. Inizialmente pensato come lavoro solista di Dave Brock, il progetto ha presto assunto una dimensione più collettiva grazie al coinvolgimento del batterista Richard Chadwick e del polistrumentista Magnus Martin. Il risultato è un album il cui titolo è un anagramma di “coronavirus” e che affronta, tra i vari temi, anche quelli legati alla crisi sanitaria globale. L’album, composto da quindici brani, tra cui The Virus e Lockdown (Keep Calm), alterna sonorità futuristiche a echi del sound più classico degli Hawkwind, ponendo al centro la scrittura visionaria di Brock. Pubblicato in vari formati e anche in digitale su Spotify, il progetto ha raccolto un piccolo ma affezionato seguito. La matrice originaria resta ben riconoscibile e gli Hawkwind, pionieri assoluti dello space rock, nonostante i
numerosi cambi di formazione, continuano a generare nuove traiettorie sonore anche attraverso esperienze come questa, che mostra un sorprendente vigore creativo in cui si alternano groove sintetici e ballate galattiche. Anche l’attività parallela di Dave Brock, sempre più simile a quella di un artigiano sonoro solitario, dimostra che la fiamma è tutt’altro che spenta.
La band attraversa decenni senza mai cessare di evolversi. Album come Levitation (1980), Church of Hawkwind (1982) e Electric Tepee (1992) dimostrano una sorprendente attualità, fatta di suoni elettronici, incursioni ambient, ritmi trance e ricerca melodica. Il gruppo cambia volti, ma resta fedele allo spirito originario.
Anche nei primi anni Duemila e nel decennio successivo, la band pubblica nuovi lavori e mantiene viva una fanbase affezionata. Spacehawks (2013, raccolta di brani più o meno recenti e
noti, alcuni remixati e altri versioni rielaborate) e The Machine Stops (2016), ispirato all’omonimo racconto di E.M. Forster, dimostrano la volontà di continuare a coniugare ricerca sonora e immaginazione letteraria. L’attitudine resta la stessa: non offrire un prodotto, ma un’esperienza.
Le copertine degli album, molte delle quali firmate dal visionario graphic designer Barney Bubbles, (pseudonimo di Colin Fulcher, 1942-1983) sono parte integrante della narrazione. I live show mescolano danza, teatro, luci stroboscopiche, costumi fantascientifici. Ogni concerto è una navicella temporale che coinvolge e trascina lo spettatore. L’arte visiva, il movimento dei corpi, la luce e l’ombra si uniscono alla musica per creare un linguaggio sinestetico. Gli Hawkwind sono stati pionieri di un’estetica totale, dove il suono non esiste senza visione, la visione senza immaginazione, l’immaginazione senza il suono. Questo spirito ha trovato eredi nei grandi spettacoli audiovisivi di artisti contemporanei, ma raramente con la stessa spontaneità e intensità. È un’estetica della presenza, dell’evento irripetibile, in cui il pubblico diventa parte del rito esso stesso.
Gli Hawkwind… oggi
Gli Hawkwind sono, ancora oggi, un faro per tutti coloro che credono che la musica possa andare oltre la funzione di intrattenimento. La loro stessa esistenza, decennio dopo decennio, è la testimonianza concreta che si può resistere al conformismo culturale e alla sterilità dell’industria musicale mantenendo integrità e immaginazione. In un’epoca in cui il rock è spesso intrappolato tra revivalismo sterile e formule commerciali prevedibili, la loro proposta continua ad apparire radicale e stimolante. Il concetto di “resistenza” va inteso qui in senso estetico, politico ed esistenziale. Resistenza è scegliere la complessità invece della semplificazione, l’immaginazione invece della ripetizione, la ricerca invece della conferma. In questo senso, la traiettoria degli Hawkwind rappresenta una delle più coerenti narrazioni alternative della cultura pop del secondo Novecento. Nessun compromesso con le mode, nessuna nostalgia
compiacente, ma un eterno movimento verso l’altrove.
Anche la loro presenza nei circuiti alternativi contemporanei (come festival indipendenti, fanzine o anche canali YouTube di cult) è la prova che non sono un semplice relitto glorificato del passato. La loro musica continua a parlare, a scuotere, a suggerire visioni. E forse proprio per questo motivo, non sono mai stati (e, va detto, mai hanno voluto esserlo) una “band da classifica”, ma una “band in* viaggio*”. Un viaggio percorrere, da esplorare, da attraversare con mente e corpo.
Nel tempo degli algoritmi e della nostalgia prefabbricata, gli Hawkwind continuano a rimanere fedeli a all’idea originale di musica come viaggio, come apertura di coscienza. Sono una forma di resistenza culturale, un laboratorio ancora attivo di possibilità espressive. La loro storia dimostra che l’integrità artistica può coesistere con la longevità: hanno attraversato decenni
di mutazioni culturali senza perdere identità, senza piegarsi alle mode e per questo non sono semplicemente una band storica, ma un progetto vivo, che continua a evolversi, a suggerire alternative. Una testimonianza di come la musica possa ancora essere un linguaggio utopico. In questo senso, sono assimilabili più a un movimento che a una formazione musicale, un prisma creativo attraverso cui leggere l’evoluzione di cinquant’anni di controcultura sonora.
Gli Hawkwind non sono solo una band. Da oltre mezzo secolo, fondono psichedelia, elettronica e letteratura in un’opera d’arte unica. Ogni disco è un portale verso un universo alternativo. Ogni brano è una narrazione cosmica, una via d’accesso all’altrove. Il loro space rock è metafora del possibile, del non ancora realizzato. In un mondo standardizzato, la loro opera continua a essere un atto di disobbedienza poetica, un inno alla libertà interiore. Lo spazio, per loro, non è mai stata la destinazione ma solo il punto di partenza.
Con la loro traiettoria nomade, la loro coerenza radicale e la continua sfida alle forme precostituite, gli Hawkwind continuano a insegnarci che l’arte (quando è autentica) può ancora trasformare. La loro eredità non è solo musicale, è un invito a guardare altrove, a pensare diversamente, a osare.
formazione attuale
Dave Brock - voce, chitarra, tastiere (1969 - presente)
Richard Chadwick - batteria, voce (1988 - presente)
Niall Hone - basso, chitarra, sintetizzatore, campionatore (2008 - presente)
Tim Blake - tastiere, voce (1979-80; 2000-02; 2007 - presente)
Mr. Dibs - basso (2007 - presente)
ex membri
Nik Turner — Saxophone, Flute, Vocals (1969-76, 1982-85)
Terry Ollis — Drums (1969-72)
John Harrison — Bass (1969-70)
Mick Slattery — Guitar (1969)
Huw Lloyd-Langton — Guitar (1969-71, 1979-88)
Thomas Crimble — Bass (1970-71)
Dave Anderson — Bass (1971-72)
Del Dettmar — Keyboards (1971-74)
Robert Calvert — Vocals, Poetry (1972-73, 1975-78)
Lemmy Kilmister — Bass, Vocals (1972-75)
Simon King — Drums (1972-80)
Simon House — Violin, Keyboards (1973-78, 1989-91)
Alan Powell — Drums (1974-76)
Paul Rudolph — Bass (1975-76)
Adrian Shaw — Bass (1976-78)
Harvey Bainbridge — Bass, Keyboards (1979-91)
Ginger Baker — Drums (1980-81)
Keith Hale — Keyboards (1980-81)
Martin Griffin — Drums (1980-83)
Andy Anderson — Drums (1983)
Rob Heaton — Drums (1983)
Dead Fred [Phillip Reeves] — Keyboards, Violin (1983-84)
Rick Martinez — Drums (1983)
Clive Deamer — Drums (1983-85)
Alan Davey — Bass (1984-96, 2000-07)
Danny Thompson — Drums (1985-88)
Bridgett Wishart — Vocals (1990-91)
Ron Tree — Bass, Vocals (1995-2001)
Jerry Richards — Guitar (1995-2001)
Jason Stuart — Keyboards (2005-08)
Discografia
solo Studio e Live album
Hawkwind (1970)
In Search of Space (1971)
Doremi Fasol Latido (1972)
The Space Ritual Alive (1973) — live album
Hall of the Mountain Grill (1974)
Warrior on the Edge of Time (1975)
Astounding Sounds, Amazing Music (1976)
Quark, Strangeness and Charm (1977)
25 Years On (1978) — come Hawklords
PXR5 (1979) — album in studio con alcune tracce live
Live Seventy Nine (1980) — live album
Levitation (1980)
Sonic Attack (1981)
Church of Hawkwind (1982) — come Church of Hawkwind
Choose Your Masques (1982)
The Chronicle of the Black Sword (1985)
Live Chronicles (1986) — live album
The Xenon Codex (1988)
Space Bandits
(1990)
Place Springs (1991) — live album
Electric Tepee (1992)
It Is the Business of the Future to Be Dangerous (1993)
The Business Trip (1994) — live album
White Zone (1995) — come Psychedelic Warriors
Alien 4 (1995)
Love in Space (1996) — live album
Distant Horizons (1997)
In Your Area (1999) — live e studio
Spacebrock (2000) — album solo di Dave Brock uscito come Hawkwind
Yule Ritual (2001) — live album
Canterbury Fayre 2001 (2003) — live album
Take Me to Your Leader (2005)
Take Me to Your Future (2006) — Dual Disc: audio in studio e video live
Knights of Space (2008) — live album
Blood of the Earth (2010) Onward (2012)
Stellar Variations (2012) — come Hawkwind Light
Orchestra
The Machine Stops (2016)
Into the Woods (2017)
At the Roundhouse (2017) — live album alla Royal Albert Hall per il 50° anniversario
The Road to Utopia (2018)
All Aboard the Skylark (2019)
50 Live (2020) — live album
Carnivorous (2020) — come Hawkwind Light Orchestra
Somnia (2021)
We Are Looking in on You (2022) — live album
The Future Never Waits (2023)
Stories from Time and Space (2024)
There Is No Space for Us (2025)
Il krautrock, conosciuto anche come Kosmische Musik (musica cosmica), è un termine nato nella stampa anglosassone per definire la scena musicale tedesca degli anni Settanta. Questo movimento riunisce band che, partendo dal rock progressivo e dall’avanguardia elettronica di artisti come Karlheinz Stockhausen, hanno sperimentato nuove forme sonore. Tra i nomi più rappresentativi figurano Klaus Schulze, Faust, Popol Vuh, Tangerine Dream, Kraftwerk, Can, Neu!, Cluster, Amon Düül II e Guru Guru.
Qui per approfondire.↩︎